di Gianluca M. Esposito – Presidente Comitato Scientifico
SARA’ L’UNIVERSITA’ DELL’IMPRESA SOSTENIBILE A RILANCIARE L’ECONOMIA ITALIANA
Nuovi imprenditori e imprenditrici: il traguardo urgente dell’Italia per tornare a essere leader. Insieme a un new deal del sistema universitario nazionale che, oggi, non risponde più alle complesse sfide imposte da una crisi sistemica, politica, economica e sociale che investe tutto l’occidente, come conferma il rapporto Ocse “A Guiding Framework for EntrepreneurialUniversities”.
Serve un’istruzione superiore che sappia formare sul campo creatori del proprio destino, cioè imprenditori, e non semplici esecutori come quadri e burocrati. Anche a livello comunitaro, l’esigenza di allevare una nuova generazione di imprenditori è stata riconosciuta dalla Commissione europea in due documenti fondamentali del 2012 e del 2013, rispettivamente “Ripensare l’istruzione” ed “Europa 2020”. Il declino del dualismo cartesiano e le continue scoperte delle discipline cognitive hanno posto in crisi il metodo tradizionale di trasmissione e apprendimento del sapere scientifico con riguardo alle c.d. scienze dello spirito (Dilthey) ovvero scienze umanistiche. La vecchia divisione tra professori (che professavano) e studenti (che studiavano) riecheggia i canoni della teologia religiosa e di quella politica in un mondo nel quale la velocità delle scoperte è tale che riesce a stare al passo con i tempi solo chi, docente o discente, è in grado di assumere una mentalità elastica e incline ad accettare le sfide del cambiamento: in altri termini una “mentalità imprenditoriale”. In questi decenni, la moltiplicazione delle Università statali e istituti superiori pubblici e privati non ha aiutato la crescita economica, ma ha determinato un aumento della burocratizzazione e un appesantimento della spesa pubblica. Il problema, peraltro, non pare risolvibile con il solo innesto di Università telematiche che hanno avuto una flessione sensibile, vista la carenza di sbocchi occupazionali che spesso costringe i giovani a rinunciare agli studi di livello superiore. Ad eccezione di settori in grande ripresa (come agraria) che hanno fatto segnare un aumento di oltre il 40% delle iscrizioni nei corsi di riferimento. Questa situazione è aggravata dalla difficilissima crisi economica che, specie a livello europeo, risente della recessione e dell’incertezza dei mercati. Gli effetti sulle imprese e sui tassi di occupazione sono tangibili: una rilevante riduzione dei fatturati con un progressivo aumento di fallimenti per le prime, e un livello di disoccupazione in particolar modo giovanile per il secondo. Aumenta anche il divario tra le regioni “convergenza” e quelle a maggior sviluppo infrastrutturale ed economico. In questo scenario, però, si intravedono anche grandi opportunità di cambiamento. Il nostro punto di leva è il Made in Italy, sia delle imprese sia dei “cervelli”.Serve aumentare il numero delle Pmi: l’imprenditorialità è il più potente motore della crescita, apre nuovi mercati, genera competenze e capacità. E’ una leva della competitività e dell’occupazione: in Europa l’imprenditorialità crea ogni anno oltre quattro milioni di nuovi posti di lavoro. Nasce da questa crescente esigenza la proposta di un modello innovativo di Università/Impresa che non solo allevi imprenditori del domani ma che, a regime, possa costituire il paradigma per un forte ammodernamento del sistema universitario.Non è tuttavia sufficiente adattare l’esistente, ma occorre ripensare le regole in modo radicale, sperimentando un modello internazionale di istruzione rivolto alla creazione di imprenditori.
Le direttrici sono tre:
a) Realizzare una simbiosi tra sapere e fare: il modello tradizionale secondo cui teoria e pratica restano separate non è idoneo alle sfide della competitività. Tale idea non è certamente nuova in Italia, basti pensare al rinascimento e alla colossale trasformazione dell’antico mondo medioevale, incentrato sulla formula “homo faber fortunae suae”.
b) Accantonare la distinzione tra chierici e laici: l’Università dell’Impresa” deve coinvolgere una comunità articolata di attori, ciascuno con un ruolo distinto ma paritario: imprenditori, studenti, professori. Questa logica impone l’adozione di un nuovo metodo per la formazione, fondato sulla interazione tra apprendere e fare.
c) Oltrepassare la c.d. specializzazione propria di un mondo industriale ormai alle spalle. Se non vogliamo passare alla storia come il laboratorio della de-costruzione dei valori e della decadenza economica post-europea, dobbiamo riunire i due fattori della creazione e dell’applicazione: lo stesso concetto di “politica pubblica” che ha marginalizzato l’antica distinzione tra potere legislativo e potere esecutivo dimostra la necessità di una linea continua tra i due fattori, e la negatività di un loro “iato”. Ciò comporta un ripensamento della distinzione tra aree didattiche: le discipline devono interagire tra loro e al loro centro va posta la cultura di impresa. Non aiuta la separazione tra “scientia” ed “experientia”: conoscere significa sperimentare.
L’imprenditore del futuro dovrà infine possedere due ulteriori abilità: la capacità di comunicare, come metodo di esistenza e non solo di saperi, e la capacità di rete, senza la cui acquisizione qualsiasi sistema non interconnesso con gli altri è destinato prima o poi a decadere. Entrambe vanno riassunte in una filosofia di valori: etica e non solo realtà dell’impresa.
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