La crescita sostenibile si misura nella capacità di arricchire il “PIL materiale” con una componente crescente di “PIL emozionale”, ovvero produrre nuovo benessere diffuso senza erodere la qualità del lavoro, dell’ambiente, delle regole e delle relazioni sociali.
La tensione degli operai di Terni che occupano l’autostrada del Sole e quella dei cittadini di Carrara, di Genova, di Chiavari che protestano in modo altrettanto evidente per essere stati abbandonati dalla politica, sono due facce della stessa medaglia.
Una intera classe dirigente viene sfiduciata nei fatti da manifestazioni spontanee che si ripetono e si moltiplicano in tutto il Paese.
Si dice di voler mettere mano a un piano per il lavoro, si dice di voler smobilitare i fondi per le manutenzioni ordinarie e straordinarie, ma ormai la tattica degli annunci del giorno dopo l’emergenza non incanta più nessuno.
La vecchia politica si consuma intorno alla legge elettorale, al patto del Nazareno e al futuro inquilino del Quirinale. Di fronte al declino dell’Italia, non meravigliamoci dunque se la gente si ribella.
10/09/2014
#passodopopasso#, è un passo indietro per l’agricoltura
Il primo capitolo del sito “passodopopasso”, con cui il governo illustra il suo programma per i prossimi mille giorni, è dedicato all’agroalimentare. Ho sperato che questo primato fosse figlio non dell’ordine alfabetico ma di una voluta scelta strategica. Penso di essermi sbagliato!
Anzi, mi sembrano tanti, seppur ben velati, i segnali di arretramento nel riconoscimento di quel protagonismo agricolo che, per mille ragioni, è invece patrimonio dell’intero Paese.
Tutto questo a cominciare dall’applicazione italiana della riforma della Politica agricola comunitaria (Pac), sulla quale il documento sembra riporre non poche aspettative.
Dopo aver faticosamente trovato una quadra comunitaria (e anche nazionale) che permettesse al nostro Paese di dare una mano concreta e aggiuntiva a chi vive di sola agricoltura, la scelta italiana è stata quella di cancellare tutto: niente agricoltore attivo e dunque un bel salto all’indietro pagato da chi di quel mestiere ci campa veramente.
Poco è importato insomma se, soprattutto in anni difficili come questo, proprio quell’agricoltore, che è il vero garante del futuro del settore (e di molto altro) ma anche il più esposto alle difficoltà, sarà il primo a chiudere l’azienda.
Poco è importato tutto questo, anzi praticamente per niente.
Stesso giudizio si potrebbe dare per il fantomatico marchio del made in Italy pensato per contrastare l’Italian sounding. Un progetto vecchio di diversi anni ma nel documento riproposto come novità assoluta.
In pratica si tratterebbe di un marchietto che, apposto (questo hanno in testa) su tutti i prodotti che vengono “incartati” in Italia, dovrebbe distinguere e garantire ciò che per lo Stato è veramente italiano.
Una misura quasi ininfluente nella lotta all’Italian sounding.
In quelle confezioni finte italiane sparse in giro per il mondo sono ben altri, e ben più visibili di ciò che si propone a casa nostra, i simboli di italianità che ingannano il consumatore. Servirebbero forti accordi bilaterali o multilaterali tra i vari governi per rendere illegali quei finti segni in etichetta, ovvero esattamente l’opposto che apporre “simboletti” di Stato e dunque aggiungere confusione alla tanta che già c’è.
Detto questo, la conseguenza più grave della proposta è però un’altra, un vero e proprio effetto boomerang.
Il nuovo marchio di Italianità potrebbe infatti paradossalmente legittimare un Italian sounding a sua volta “made in Italy”. Per i consumatori anche nostrani quel simbolo verrà infatti percepito (e forse così si vuole che sia) come “il nuovo garante di italianità”: se dunque ad un prodotto, per fregiarsi del riconoscimento di Stato, basta poco più che “transitare” per l’Italia, di fatto, in un colpo solo si verrebbe a creare un surrogato a tutte le denominazioni e le etichettature di origine.
Uno sfregio allo sforzo che si sta ancora facendo per rendere visibile nel made in Italy agroalimentare la provenienza del prodotto agricolo.
In questo modo sarà certo più facile raggiungere i 50 mld di export agroalimentare auspicati (giustamente) nel documento, ma a pagare in competitività sarebbero i nostri agricoltori e il tanto impegno che stanno mettendo per costruire una diversità oggettiva e riconoscibile alle proprie produzioni.
Ad esser lungimiranti, sarebbe giusto dire che a pagare sarebbe l’intero Paese, che rinuncia ad un tratto distintivo che direttamente o indirettamente alimenta una buona fetta del valore emozionale del brand “Italia”.
Se questa filosofia dovesse prendere piede, dobbiamo solo augurarci che la proposta scivoli nel grande contenitore degli annunci mai realizzati.
Passo dopo passo al passo del gambero? Anche no, grazie!
08/08/2014
ELOGIO ALL’OTTIMISMO
L’Italia arretra, la tanto auspicata crescita non si vede, la disoccupazione aumenta, il debito pubblico ha superato ogni record, i cinesi si comprano le nostre imprese strategiche e la Fiat, unica grande a proiettarsi nel mondo, cambia nome e se ne va. Evidentemente per cambiare verso non bastano le pur necessarie iniezioni di fiducia e di ottimismo che Matteo Renzi dispensa in ogni occasione.
L’ottimismo è una merce pregiata, è uno stato d’animo complesso e per questo va dosato con prudenza e ponderazione. L’ottimismo è un po’ come il sale, non va messo né troppo né troppo poco e soprattutto, quando manca la pietanza da insaporire, è inutile tirarlo in ballo.
In Italia abbiamo scommesso sulla aspettativa che un’interminabile sequenza di annunci, sostenuti da una generosa propaganda, potessero alimentare l’ottimismo e che quest’ultimo, aiutato da ottanta euro al mese in busta paga, potesse trainare l’economia e i consumi. Ma l’ottimismo come sottoprodotto della propaganda si chiama illusione, non dargli il vero nome auspicando di raccogliere gli stessi frutti è un gioco d’azzardo non una strategia politica. Per di più, la percezione di un ottimismo senza radici, alimentato dalla sola speranza, rischia di essere vissuto come l’immagine rifratta di una mediocrità di fondo, l’anticamera alla delusione, l’opposto dunque ad una spinta emotiva da intraprendere.
Ecco l’errore va ricercato qui, nell’enorme divario tra i problemi del Paese reale e le questioni prioritariamente affrontate da Governo e Parlamento, un divario che ha generato il sospetto. Ci si aspettava infatti che in questo difficile momento tutti si concentrassero sul lavoro che manca, sulle imprese che non riescono ad essere competitive, su quei settori che possono rappresentare il futuro del Paese: cultura, turismo agroalimentare, su una decisa semplificazione della vita per imprese e cittadini, su una verità che andasse oltre la battuta pronta.
Ingessare per mesi (e forse anni) il Parlamento per fare la riforma del Senato e poi quella elettorale è sembrato come, non avendo la più pallida idea di come tirare fuori l’Italia dalla crisi, se si volesse spostare il tiro su grandi temi, grandi riforme e grandi accordi, su un terreno dunque fertile per la propaganda ma di cui oggi il Paese reale non sa cosa farsene. A dirla tutta, è difficile convincersi che la priorità del Paese sia l’abolizione del bicameralismo perfetto per fare le leggi più velocemente, quando il problema risaputo sono non le poche ma le troppe norme e la sostanziale inconcludenza e inapplicabilità di buona parte di queste. Allo stesso modo è dura appassionarsi all’idea che la democrazia si rafforzi se alla lista dei “nominati” si aggiungono anche i futuri senatori per andare a decidere, tra l’altro, non si capisce cosa. Insomma: più che riforme sembrano effetti speciali messi lì in attesa che si partorisca qualche buona idea per cambiare veramente l’Italia.
Non è difficile concludere, allora, che non è la forza dirompente dell’ottimismo che esce sconfitta dalla peggiorata situazione del Paese, ma è la presunzione di poterlo coltivare su un terreno arido e povero di sostanza che sta pagano il pegno.
Ma io ottimista lo sono, perché si può sempre cambiare verso!
Sergio Marini
17/04/2014
Questa testimonianza è un invito a non trascurare mai quei segni che possono valere la vita.
Quella volta l’avvertimento fu più forte delle altre. Una via di mezzo tra un sonoro rimprovero e una silenziosa supplica a non lasciar cadere la cosa. Proprio così, come potrebbe fare un buon genitore verso un figlio scapestrato. Quel segnale non lo ho ignorato.
Ho seguito per lungo tempo alcuni parametri clinici non proprio a posto. A meta dello scorso anno erano un forte sospetto, durante l’estate, una cura inutile che confermava, ancora accertamenti, e il dubbio è diventato certezza.
Nonostante abbia cercato di nascondersi dietro precedenti rassicurazioni di medici superficiali, avevo insistito, medici seri lo hanno scoperto in tempo.
A volte il destino ti gira le spalle, non lo fa mai per indifferenza. In quei momenti occorre rincorrerlo e guardarlo negli occhi, non per sfida, vincerebbe lui, ma per riaffermare la non negoziabilità della dignità umana.
Era una giornata di quelle che si ricordano per sempre, sono entrato in sala operatoria alle otto, sono tornato in camera dopo le sedici. Un intervento inevitabile, lungo, ma ben riuscito.
Un periodo in ospedale, condiviso con mia moglie ed i miei figli che hanno accompagnato ogni mio respiro di quei momenti, poi una non breve convalescenza.
A mia madre che non volevo preoccupare e, come tutti, non sapeva niente, dopo ho spiegato “ Mamma qualche giorno fa mi sono sottoposto a quell’intervento che avrebbe salvato la vita a Papà.
Papà ebbe il mio stesso problema ma non la stessa mia fortuna, per Lui il segnale non arrivò in tempo, era ormai troppo tardi. Io, più fortunato, ho avuto Lui!
Nove mesi per capire e combattere un cancro, una convivenza non facile, ma oggi posso dirlo, NON HA VINTO!
Le durezze della vita costano, ma sono una bussola saggia per indicare ciò che per un uomo conta veramente. È nell’ aiuto di Dio, nella serenità della propria coscienza e nell’affetto delle persone più care che possiamo trovare le forze per affrontare i momenti più difficili!
Sergio Marini
03/03/2014
La Grande Bellezza ha vinto l’Oscar. Quando si tratta di competere sul genio, sulla creatività, sul talento, gli Italiani non deludono mai; se poi tutto lo applichiamo alla nostra straordinaria bellezza dei luoghi, delle culture, il risultato diventa straordinario. Il film di Sorrentino è proprio questo: la testimonianza di ciò che potremmo essere e che spesso, troppo spesso, non riusciamo ad essere.
C’è una doppia Italia che convive, quella di chi ci rappresenta per “titolo”, intrisa spesso di ipocrisie e mediocrità, e quella di chi ci rappresenta con i fatti, segnata dal coraggio e dalla qualità : è quest’ultima che ci rende orgogliosi di essere Italiani e che il mondo premia con l’Oscar.
Purtroppo c’è un limite culturale, direi antropologico, che, salvo poche eccezioni, non consente di trasferire le eccellenze che riusciamo ad esprimere nelle arti, nei mestieri e nelle professioni anche alla sfera pubblica. Si tratta della patologica viltà di chi ha potere di non rischiare mai pur di non mettere in gioco la posizione acquisita. Questa paura è madre di scelte mediocri , di ambizioni mediocri, di uomini mediocri e non fa mai scommettere sull’Italia più bella, perché richiede quel pizzico di sana follia e di cui solo il coraggio dispone.
Per fortuna è arriva la notizia dell’Oscar di Sorrentino a ricordarci che noi siamo anche altro.
Ecco, La Grande Bellezza ci insegna a voler bene al nostro Paese,è un inno all’Italia possibile, un’iniezione di fiducia, un sogno che si avvera, insomma è la rivincita del coraggio e un omaggio ai tanti che ci vogliono provare.
Sergio Marini
25/02/2014
Renzi, nel suo intervento alle Camere, ha messo la passione, il coraggio, la capacità di puntare diritto alla gente. Lo ha fatto tagliando forme e rituali e mettendo se stesso e la sua faccia davanti ad ogni altra cosa.
La forma e la retorica è quella che piace a me e che piace alla gente. Le metafore utilizzate sono quelle giuste, comprensibili a tutti, che rendono la politica meno antipatica ed odiosa e che, se non proprio il sogno, alimentano almeno la speranza. Sì, è vero, a volte ha parlato più ai mercati rionali, come dice lui, invece che sfruttare questa straordinaria occasione per parlare al mondo. Peccato, ma ne avrà altre di occasioni.
I contenuti proposti, però, fatta salva qualche iperbole, per lo più sono quelli che ci sentiamo raccontare da una decina di anni. Ha parlato di grandi riforme, tutte quelle che sappiamo: taglio della burocrazia come madre di tutte le battaglie, poi fisco, lavoro, giustizia, scuola, riforme istituzionali, tutela del territorio. Ed ancora pagamento immediato di tutti i debiti della Pubblica Amministrazione, taglio del cuneo fiscale di almeno dieci punti, messa in sicurezza degli edifici scolastici.
Tutte cose giuste e condivisibili, ma purtroppo solo elencate, derubricate ad aneddoti efficaci ma poco convincenti. La questione centrale, infatti, quella che ha fatto arenare gli ultimi governi, non è rappresentata tanto dall’elenco delle cose da fare ma dal come farle. Ecco: su questo punto il Presidente del Consiglio ha glissato, ha detto poco o niente, è parso evidente che sui contenuti non si è mai spinto oltre il “cosa”, assumendosi non pochi rischi sul “quando”, e senza dire nulla rispetto al “come”. Dove troverà, ad esempio, quel centinaio di miliardi che servono subito per fare quanto ha detto di voler realizzare primariamente? In che direzione riformerà fisco, lavoro, giustizia legge elettorale con solo pochi voti di maggioranza in Senato, tra l’altro ripartiti tra una decina di gruppi e correnti parlamentari che la pensano diversamente? Queste cose Renzi non le ha dette, e non sono certo dettagli, ma la sostanza che farebbe la differenza. I fiduciosi dicono che non poteva, i maligni che non sapeva. Mi piace pensare, per il bene del mio Paese, che abbiano ragione i primi.
Buon lavoro Presidente.
Sergio Marini
17/02/2014
A proposito di nuovo governo, una cosa si potrebbe fare subito in questo Paese e senza spendere neanche un euro. Anzi, si avrebbe un effetto immediato sulla voglia di fare impresa, sulla riduzione della spesa pubblica e sullo stroncamento della corruzione.
Mi riferisco alla taglio della burocrazia inutile. Il costo più odioso, il freno più mortificante capace di disarmare la più bella e creativa iniziativa imprenditoriale e non. Abbiamo creato un mostro con tante teste, ognuna indipendente dall’altra ma pronte a giocare in squadra non appena si crede di tagliarne una, o peggio, quando si taglia ne ricrescono due.
La chiave di lettura dei tanti fallimenti che hanno accompagnato qualsivoglia tentativo di ridurre la burocrazia sta in due semplici parole: potere e denaro. Il potere di veto, di rallentare, di insabbiare in capo ad ogni burocrate si somma al piacere di sentirsi necessario, cercato, pregato, “sollecitato”. Poteri e piaceri che, se mancano, sono diabolicamente indotti, costruiti e… difesi. Purtroppo leggi e regolamenti si prestano alle interpretazioni più fantasiose perché nati con questo vizio di fondo, un tributo pagato dalla politica alla burocrazia, ma anche un’effettiva incapacità di legiferare in modo chiaro. E poi il denaro, perché la burocrazia costa: costano gli apparati, costano le consulenze, costano i ricorsi, costano le giornate perse negli uffici, costano i mesi di attesa delle autorizzazioni, costano le umiliazioni che si subiscono, costano le corruzioni che si generano. Insomma la burocrazia è un costo per tutti e un vero affare per alcuni!
Ridurre del 50% la burocrazia è possibile in un solo mese di tempo. Avremmo un effetto straordinario su crescita e occupazione, ma soprattutto farebbe tornare a tanti la voglia di provarci!
Per come siamo messi in Italia, si tratterebbe di una vera e propria rivoluzione, senz’altro pacifica, ma pur sempre una rivoluzione! Ci sarà qualcuno disposto a farla?
Sergio Marini
10/02/2014
Anche questa settimana, come ormai da troppi anni, ci sentiamo dire che quelli in corso sono giorni cruciali e che siamo all’inizio della settimana più complicata del governo.
Le motivazioni possono essere le più diverse, ma la sostanza resta la stessa : ogni giorno può essere l’ultimo e i comportamenti sono appunto quelli da ultimo giorno. In perenne clima da campagna elettorale, la prospettiva si riduce e il futuro si accorcia, i contenuti spariscono; tutto diventa tatticismo, la politica parla solo di se stessa e con se stessa.
A questo modo di far politica, anzi di non farla, ci stiamo abituando. Viviamo il tutto come l’interpretazione autentica del Grande Fratello, giudichiamo ogni giorno non in base a cosa ma a chi: chi verrà nominato e chi ripescato, chi è fedele e chi tradisce, chi si allea e chi è destinato alla gogna.
Leggiamo i giornali e guardiamo la Tv con la stessa tensione emotiva di chi si appresta a seguire l’ennesima puntata di una telenovela. Incitiamo, contestiamo, imprechiamo e gioiamo, in base ai destini che toccano ai nostri beniamini. In un mix di morbosa curiosità (ma di sostanziale disinteresse), aspettiamo lo scoop del giorno come fosse il sale di uno spettacolo che non ci tradisce mai.
Poi dopo un po’ spegniamo la Tv, chiudiamo il giornale e torniamo a quella che riteniamo la nostra vita reale. Come in un dopo-partita rimangono solo episodi e argomenti per animare discussioni tra amici. Forse la rassegnazione, forse un innato e comprensibile istinto di autoconservazione ci fanno dimenticare che di quello spettacolo si nutre, purtroppo, buona parte del nostro (reale) presente e futuro.
Ora una domanda non possiamo non farcela: francamente, tra il fare male della politica e il nostro lasciar fare male, c’è uno spazio sufficiente per sentirsi tutti con la coscienza a posto?
Sergio Marini
03/02/2014
Il piano “destinazione Italia” è stato lanciato dal governo lo scorso Settembre per aprire l’Italia alla globalizzazione, ovvero, come si legge nell’introduzione, “per portare il mondo in Italia, attrarre il capitale finanziario ed umano con il quale creare lavoro, sapere e crescita”. Il primo decreto di quel piano verrà convertito dal parlamento in queste settimane. Ma intanto qualcosa è già successo in Italia.
Il gruppo Fiat (FCA), guidato da Sergio Marchionne, ha deciso di trasferire la sede legale ad Amsterdam e quella fiscale a Londra. L’Electrolux vorrebbe lasciare l’Italia a meno che non abbia carta bianca nel tagliare salari e personale e nello scaricare chissà quale altro costo sul nostro Paese. Per Alitalia staremo a vedere. Questi sono casi limite e con all’interno contraddizioni che meriterebbero un serio approfondimento, ma il punto è che si possono raccontare tante altre storie di grandi e piccole imprese che se ne stanno andando dall’Italia. Con l’aria che tira è sì importante attrarre imprese dal mondo, ma intanto sarebbe buona cosa far rimanere in Italia quelle che già ci sono: insomma, servirebbe un piano “Rimanete in Italia”!
Potremmo cominciare da un modo diverso di affrontare i problemi, che vada oltre la forma e intacchi la carne viva della sostanza. Vorrei ricordare tre casi di stretta attualità, diversi nel merito ma a mio giudizio rappresentativi di una cultura politica da rivedere.
In questi giorni si è preoccupati per la procedura d’infrazione UE contro l’Italia sui ritardi dei pagamenti della P.A. verso le imprese; con un’attesa media intorno ai 170 giorni, l’Italia è infatti il peggior pagatore d’Europa. Ecco, se ci preoccupassimo, come molte volte annunciato, anche di pagarli quei debiti, sarebbe già un buon inizio. In effetti stiamo vivendo una situazione paradossale perché, al di la della forma, sempre di debiti si tratta: se paghiamo, sforiamo il 3% deficit/pil e andiamo in infrazione, mentre se ritardiamo ancora, rischiamo lo stesso una procedura d’infrazione per la mancata applicazione della direttiva sui tempi di pagamento. Ma una differenza rimane, e non di poco conto: sono le tante imprese che nel frattempo chiudono per “crediti non riscossi”, e la gente che rimane a casa senza lavoro. È questa la sostanza!
Siamo poi offesi e indignati con il New York Times perché ha pubblicato alcune vignette sulle “frodi ” che facciamo sull’olio di oliva, che vendiamo per vero Italiano. Anche qui, se andassimo oltre la forma, ci indigneremmo meno per le vignette e più con chi quelle porcherie le mette in pratica, rovinando l’immagine di tutto il made in Italy. L’appeal di un intero Paese è legato alla credibilità e serietà di chi lo rappresenta nel mondo, siano esse istituzioni, cittadini o imprese. Le vignette sono il sintomo, mentre i venditori di finto made in Italy sono il male che uccide il futuro di tutti noi.
La sorsa settimana infine, con la complicità di un decreto nato per abolire la seconda rata Imu, abbiamo anche dato un “aiutino” di qualche miliardo di euro ad alcune banche. Al di là del merito, sarebbe stato opportuno spiegare bene e subito agli Italiani come stavano effettivamente le cose, senza passare per il solito balletto di bugie, interpretazioni , pirotecniche sedute parlamentari e il conseguente strascico di ipocrisie. Dire la verità ai propri cittadini incide non poco sulla percezione di affidabilità e fiducia verso il proprio Paese, e dunque sulla voglia di rimanerci a vivere e lavorare!
Per un piano “rimanete in Italia” non servono solo risorse e grandi riforme, ma già un pizzico di buon senso potrebbe fare molto.
Sergio Marini
26/01/2014
L’Italia e gli Italiani posseggono fattori culturali così distintivi da poter tratteggiare una via originale alla modernità che cambierà il Paese.
Non si tratta di nazionalismo o della necessità di colmare una prolungata astinenza dall’ottimismo. Non è neanche una rappresentazione di autostima, che anzi risente fortemente di un’ambivalenza in cui facciamo convivere grandi qualità e grandi difetti.
Si tratta invece di una constatazione su noi Italiani: la presenza di un mix di valori tradizionali – che tendono a mitigare l’accelerazione disumana che la modernità imprime alla nostra vita – e una declinazione del benessere verso valori immateriali, che contrastano l’anacronistico modello di consumo imposto dal mercatismo.
Non siamo più bravi degli altri, siamo semplicemente più fortunati!
La sedimentazione di millenni di storia, di diversità culturali tenute però insieme come maglie di un tessuto, hanno dato un’impronta genetica alla nostra comunità, impermeabile al passaggio veloce di modelli economici e sociali, con cui la globalizzazione priva di cultura si rappresenta.
Questa unicità il mondo ce la riconosce, e di questa, nonostante la globalizzazione, sente un enorme bisogno.
È un valore aggiunto “relazionale”, che anche noi cogliamo quando, per motivi diversi, ci sentiamo orgogliosi di essere Italiani.
Orgoglio che diventa disgusto non appena, però, il giudizio non è più sulla nostra storia, sulla nostra bellezza o sul nostro “saper vivere”, ma si sposta sul sistema-Paese che appare, sia a noi che al resto del mondo che ci guarda, consumato, corporativo, corrotto.
Ma ancora la fortuna può venirci in soccorso: il nostro sistema-Paese non ha un’impronta genetica durevole, e per questo lo possiamo riformare e rifondare.
Forse occorreranno anni per ottenere ciò, ma ne varrà sicuramente la pena perché apriremo finalmente una via a quell’appeal Italiano (e SOLO Italiano), matrice di una nuova modernità sostenibile.
Stato, economia e società potranno non solo convivere senza confliggere, ma arricchirsi al fine ultimo di una migliore qualità della vita. Una necessità, c’è da scommetterci, che nel tempo si consoliderà ben oltre i confini del nostro Paese.
Sergio Marini
15/01/2014
E se la Scuola Italiana diventasse un luogo dove si formano imprenditori invece che disoccupati? E se invece di parcheggio per giovani che non trovano lavoro, la nostra Università forgiasse una generazione di laureati capace di leggere e interpretare i punti di forza del Paese, vogliosa di mettersi in proprio invece che di mandare curricula a chi neanche risponde?
A guardarla dall’interno, l’Italia è e sarà sempre di più il Paese delle piccole e medie imprese, capaci di cogliere le diversità dei territori e di arricchirli con la creatività del capitale umano. Imprese pronte a proiettarsi in un mondo che ha fame di made in Italy.
Abbiamo bisogno di cultura imprenditoriale. Solo da qui può nascere nuova occupazione, generarsi nuovo reddito, nuovi consumi e di conseguenza, nuove imprese.
Questa è la formula più efficace e più “italiana” per attivare quel circolo virtuoso che la storia dimostra difficilmente avviabile partendo da altro punto.
Smettiamola di girarci intorno: il lavoro non si crea per decreto, il reddito non è solo questione di equità, i consumi non possono essere coperti a dismisura con i debiti.
Abbiamo saputo che il nostro Paese ha il primato in Europa nella difficoltà, per le imprese (il 47% secondo il rapporto stilato su otto paesi Ue), di trovare lavoratori competenti e preparati perché il nostro sistema formativo non comunica con quello dell’imprenditoria.
Ora, visto che dobbiamo rimetterci le mani facciamolo per bene. Formiamo imprenditori… saranno comunque degli ottimi lavoratori!
Sergio Marini
18/12/2013
L’Italia, da qualunque parte la prendi, riesce sempre a meravigliarti!
Non passa giorno senza che impariamo qualcosa di nuovo: abbiamo visto susseguirsi governi di centro sinistra, centro destra , tecnici, di larghe e poi strette intese, che ricorderemo solo per aver fatto nascere, modificato, abolito, ripristinato ed infine cambiato e ricambiato nome all’IMU; abbiamo visto grandi e piccoli partiti vivere per fondersi, dividersi cambiare nome e simbolo impegnarsi in estenuanti conte interne, e poi ricominciare daccapo; abbiamo visto la Corte Costituzionale metterci otto anni per riuscire nell’epica impresa di fare ciò che avrebbe dovuto fare in otto giorni e lo Stato farsi anticipare le tasse dell’anno dopo per riuscire a chiudere il bilancio e chiamare tutto ciò “tenere i conti in ordine”!
Nel frattempo la gente spontaneamente scende in piazza, e le ragioni non le mancano.. Le persone a rischio povertà hanno raggiunto il 30% degli Italiani (oltre un milione sono bambini) il potere di acquisto è sceso in cinque anni del 19% , i disoccupati sono aumentati e aumenteranno ancora, quasi un giovane su due è senza lavoro, le imprese, che sono le uniche a poter dar lavoro, chiudono… e intanto il debito pubblico aumenta di mezzo miliardo al giorno! Uno spettacolo, quello a cui assistiamo, che ha un prezzo salatissimo, ma di cui forse i principali responsabili siamo proprio NOI! Questo modo di far girare il Paese sta diventando la normalità, ci abbiamo fatto l’abitudine, ormai la accettiamo con quel fatalismo misto a rassegnazione propria di chi a reagire non ci pensa proprio. Ci chiudiamo dentro casa e mentre la TV trasmette “il circo” noi aspettiamo che altri ci mettano le mani.
Ma altri chi? Altri quando? Perché altri? Ovvero perché non NOI? Perché dalla rassegnazione non passiamo all’indignazione e poi al coraggio di cambiare NOI l’Italia?
L’Italia nonostante tutto è un grande Paese e gli italiani sono un grande popolo, con tanti difetti, forse troppi, ma mai da giustificare la colpevole viltà di veder bruciare il futuro davanti e considerarla cosa che non ci riguarda. Non si tratta di scegliere o fondare questo o quel partito, non si tratta di sostenere questo o quel governo, qui si parla più seriamente di NOI! Serve che si risveglino le coscienze, che emerga l’Italia dell’orgoglio , quella che ha una storia di fatti, e non solo di parole, quella che vuole bene al Paese e che vuole rimanere In Italia. Questa Italia c’è, sta in mezzo alla gente, questa Italia è la nostra stessa gente, deve solo ritrovare la consapevolezza di quanto vale e di quanto sia importante.
Ecco, il movimento di rete Coltiviamo il Futuro e la Fondazione Italia Sostenibile per azioni vogliono essere una occasione per tutti di mettere insieme le idee e le azioni, di dimostrare, e non solo raccontare, che un’Italia diversa è possibile e che molto dipende da Noi. L’invito a tutti è di entrare in questo spazio, conoscerlo, utilizzarlo, come se fosse una finestra di casa vostra aperta verso gli altri e orientata al domani.
Sergio Marini