di Dario Fruscio
1^parte
L’allarme della Commissione europea sull’entità (tendenzialmente ancora crescente) del debito pubblico italiano è alto e anche ampiamente comprensibile. In gioco col destino italiano vi sono quelli dell’euro e del sistema integrato europeo.
E’ evidente, si è di fronte ad un allarme che richiede analisi e valutazioni altamente meditate e sommamente responsabili. Di soluzioni prefabbricate e pronte all’uso in grado di far cessare l’allarme non se ne scorgono all’orizzonte. Costruirle si pensa sia possibile, partendo da talune riflessioni su aspetti cruciali delle ragioni e motivazioni della forte e crescente instabilità finanziaria avutasi in Paesi Ue dopo circa dieci anni di vita dell’euro.Una instabilità accompagnata da accentuate tensioni politiche fra paesi del Nord e del Sud dell’Unione europeo.
Una prima riflessione va posta su uno dei capisaldi del trattato di Maastricht: l’Unione europea si fonda sul principio della solidarietà. Principio che la letteratura economica che ha nel nobel Robert Mundell il più autorevole rappresentante, così ha tradotto in pillole: se un’area regionale comunitaria entra in crisi di produzione di reddito e/o d’occupazione, dovrà fruire, nell’ambito dell’Unione, della possibilità di un proprio aggiustamento nei modi e nelle forme rese possibili dalla flessibilità dei mercati dei Paesi integrati, oppure attraverso la mobilità del lavoro in direzione delle aree più produttive. Nulla di tutto ciò è avvenuto dopo Maastricht. E nulla poteva avvenire in considerazione del fatto, per altro, che il Trattato di Maastricht contiene (perfino) una disposizione di blocco di risorse dai Paesi più ricchi a quelli bisognevoli di sostegno congiunturale, come annota Bini Smaghi nel suo più recente libro, editato da Il Mulino.
Una seconda riflessione riguarda gli sbandierati fini e scopi dell’introduzione della moneta unica europea:
• innanzi tutto di ricondurre a normalità il predominio finanziario e politico della Germania a livello comunitario. Un predominio divenuto ben presto egemonico sull’integrazione e sulla politica della Conunità europea;
• in secondo luogo l’euro veniva interpretato come una possibilità dell’Europa di fronteggiare l’egemonia finanziaria americana, resa possibile dal ruolo del dollaro sui mercati internazionali. Né l’una, né l’altra di tali supposte finalità hanno prodotto alcunché di coerentemente consequenziale.
Una terza riflessione riguarda l’introduzione dell’euro in un contesto di Paesi con differenziate condizioni effettive e potenziali economico-finanziari. Un patto fra diseguali, è stato definito quello dell’euro, innervato su di una moneta unica. Un patto che, per ciò stesso, non poteva che essere penalizzante per i Paesi più deboli e simmetricamente più premiante per quelli più forti (rispetto al criterio della sbandierata sussidiarietà prima evocata, si potrebbe dire che si è in una fattispecie di eterogenesi dei fini).
Un patto che ha prodotto, di fatto, il commissariamento dei Paesi comunitari “dipendenti”, ovvero di minor consistenza economico-finanziaria.
Una quarta riflessione concerne il perché non si sia proceduto con gradualità all’introdurre l’euro. Iniziando dai Paesi meglio dotati ed anche, magari, già in qualche modo integrati nell’area del marco tedesco, per poi gradualmente procedere verso gli altri Paesi via via in grado di convergenza adeguata.
Una tale procedura, più ideale che reale, sia in considerazione di una classificazione dell’Europa a due velocità che ne sarebbe derivata; sia, ancor più, in considerazione della non scalfibile determinazione tedesca di salvaguardare la propria economia dagli effetti di svalutazioni competitive di Paesi industrialmente importanti come l’Italia e forse anche la Francia, ed altri ancora.
Una quinta riflessione porta a considerare che Maastricht, mediante una serie di parametri, facendo della Banca Centrale Europea il proprio (discreto) braccio operativo ha, di fatto, realizzato una realtà che un autorevole storico contemporaneo l’ha chiamata “gabbia d’acciaio”. In essa hanno rinchiuso (per ora) i Paesi comunitari più deboli, fra cui l’Italia. Di modo che elites tecnico-finanziarie possono decidere cosa debbano fare i Paesi ingabbiati. Tali elites, vera e propria “forza a sé stante”, forte dei vincoli sopranazionali rappresentati dai parametri di Maastricht, fungono da potere sovraordinato alla politica e alla istituzioni dei Paesi in “gabbia”. Eclatante in tale contesto è la lettera al Governo italiano dell’agosto 2011 da parte della BCE, sufficiente , da sola, a destituire il Governo in carica e imporne uno nuovo e inedito in quanto svincolato da ogni pur tenue collegamento con l’elettorato nazionale.
Una sesta riflessione attiene alla necessità che venga posta attenzione al fatto che il patto costruito su una “moneta unica”, sbandierata come un semplice cambio di valuta, per il caso Italia fondato sulla rigida equivalenza di un euro pari a 2000 lire, ben presto si attestava al rapporto da 1 a 1000. Conseguenze disastrose (dimezzamento del salario reale) e connessa e conseguente contrazione del sistema produttivo.
Una settima riflessione merita l’acquiescenza precipitosa (e passata abbastanza silentemente) della richiesta di Bruxelles del recepimento nella Costituzione italiana dell’obbligo del pareggio di bilancio entro l’anno finanziario 2015. Cardine di tale obbligo di pareggio è il fiscal compact, ovvero l’impegno di ogni Paese indebitato a ridurre di un ventesimo l’eccesso di debito rispetto al 60% del PIL . Condizione essenziale perché il fiscal compact risponda alle aspettative necessarie al conseguimento del pareggio di bilancio di cui testè è che il livello del debito rispetto al Pil sia decrescente.
Nel caso Italia, tale rapporto del 120% all’atto del varo del fiscal compact, viaggia attualmente su poco meno del 134% . La qual cosa lascia (matematicamente) prevedere che l’intera architettura “pareggio di bilancio” – “fiscal compact” andrà incontro al fallimento.
Una ottava riflessione discende dalla considerazione per ultima esposta: continuando nella politica del rigore dei conti, continua la condizione di “ingabbiati” dei Paesi deboli rispetto ai parametri di Maastricht. La qual cosa porta a ritenere (sulla scorta di quanto accaduto negli anni Trenta del Novecento) che possa prender piede il circolo vizioso tipico delle fasi come l’atttuale: caduta della domanda, disoccupazione,ulteriore diminuzione dei prezzi.
Di fronte a tale possibile deriva, v’è da registrare il risoluto atteggiamento della BCE di tenere e mantenere i tassi di riferimento al minimo storico. E questo è già tanto per raffreddare il pericolo “deflazione”. Resta, tuttavia, che la sola politica monetaria non potrà essere artefice del rilancio della domanda.
In tale contesto, quel che più desta stupore e sconcerto e soprattutto preoccupazione, è l’atteggiamento della Germania di non tenere in debita considerazione la lezione della deflazione degli inizi anni Trenta, della quale fu Essa stessa la grande vittima. Per altro, ben oltre i confini dell’ambito economico.
Una nona riflessione, rispetto tutto quanto qui considerato, riguarda cosa fare, cosa proporre, affinché il nostro Paese esca dalla “gabbia d’acciaio”, e tutti i Paesi Ue godano di maggiore integrazione, fondata sul modello di sussidiarietà traibile, in particolare, dai lavori del premio Nobel Robert Mundell.
Nulla l’autore della presente nota ritiene di dover aggiungere a quanto in essa nota rappresentato, se non chiarire che l’ampiezza e l’articolazione della nota medesima vogliono essere di sollecitazione per una possibile, ampia partecipazione ai fini di meglio puntualizzare la complessa e delicata questione delineata nel documento proposto. Una sollecitazione rivolta a quanti abbiano consapevolezza e interesse a far sì che dal cittadino, singolarmente e/o collettivamente inteso, promani quell’attività di pensiero e di azione animata da voglia e intelligenza di concorrere alla migliore possibile integrazione europea, da considerare tuttora in costruzione, conto tenendo che gli stati d’avanzamento lavori dovranno riguardare la realizzazione dell’integrazione politica europea.
Si ricava da quanto or ora detto, che l’autore della presente nota è incline a ritenere che la gravità della crisi economica in corso e le difficoltà frapposte da taluni dei 27 Paesi dell’Ue per il suo superamento, non possono indurre nell’unica determinazione di far “saltare il banco”, Altre crisi si sono avute in passato e tante altre ne serberà il futuro. Sempre lo stesso il metodo di affrontarle e gestirle: revisioni e riforme dei sistemi economici; modificazioni delle politiche industriali e di processi distributivi dei beni e dei servizi prodotti; relazioni economiche in chiave d’integrazione competitiva su base globale. Sarebbe ben strano che ad ogni crisi si facesse, automaticamente, un passo indietro.
Tale metodo e tale criterio in un sol caso non avrebbero ragion d’essere: nel caso di condanna all’immobilismo imposta, definitivamente e durevolmente, da taluni Paesi a danno di altri.
Di certo l’Europa è a un bivio: Può andare verso una piena, paritetica integrazione, fondata sulla sussidiarietà; oppure verso il rischio implosione dell’euro, con conseguente implosione del progetto europeo.
Cosa ne pensa lei/tu cittadino? E quali il suo/tuo contributo di suggerimento/i affinché un tale epilogo non abbia ad aversi?
Segue…
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