Le mode arrivano, contagiano, svaniscono. Talvolta ritornano. Irradiano luce irresistibile, di solito nell’interesse di chi le lancia. Ne fanno le spese cittadini, consumatori ed elettori che se ne avvedono tardi. Dichiarare guerra all’apparato statale non è una novità ma, in linea col ruolo di rottamatore o demolition man, l’attuale premier l’ha riproposta con aggressiva tattica mediatica. La metafora della “ruspa”, eccessiva per chi è al vertice delle istituzioni e deve tutelarle, dà però l’idea di chi non ha centrato il punto, o non vuole. E’ popolare tuonare contro l’Amministrazione, famosa più per i ritardi di licenze e permessi che ogni giorno servirebbero per aumentare il pil, che non per quanti vi lavorano con lealtà. Non lo è ammettere che l’inefficienza pubblica sia il prodotto di scelte politiche sbagliate. Scelte che, tessendo una fitta ragnatela di leggi irragionevoli, hanno portato al blocco del paese. Ne ricordo due per il loro profondo impatto: la privatizzazione del pubblico impiego e la riforma della Costituzione. Anticipate da altrettante mode, hanno generato costi incalcolabili in termini di mancata crescita del sud come il nord. La prima perché ha abolito la responsabilità dei politici per la gestione. La seconda perché ha aumentato per venti regioni gli strati normativi di un Paese che, invece, aveva urgenza di “diritto certo”. Questa per molti lati è stata una porta alla cattiva amministrazione.
E’ allora utile precisare alcune cose.
Uno: risale a L’esprit des lois di Montesquieu (1748) e alla sua moderna divisione dei poteri, il primato della legge sull’attività amministrativa. Tradotto, è da alcuni secoli che il legislatore detta le regole alla burocrazia, fissa i compiti, ne scandisce le procedure, ne nomina i vertici. È infatti il parlamento che ha progettato l’apparato dello Stato, scritto le norme della sua attività, istituito a carico dei contribuenti una pletora di enti centrali, regionali e locali (di cui proprio le province potevano essere sintesi), ampliato i loro poteri, accresciute le competenze esterne, aggiunto vincoli, dilatato i tempi già irreali del diritto amministrativo.
Due: buone leggi fanno buona amministrazione, cattive leggi burocrati e corruttela. In Italia, la politica ha subordinato il decreto di un ministro al parere di commissioni, comitati, conferenze; simulato una gestione dei dirigenti (non eletti) salvo riservarsi il potere di rimuoverli (spoil system); redatto una lunga la lista di nulla osta, intese, conferenze, assensi, concerti necessari all’avvio di un’impresa o alla costruzione di un’abitazione; demandato alle regioni il potere di disciplinare contemporaneamente lo stesso settore (turismo, agricoltura ecc) con decine di leggi, che hanno partorito centinaia di procedure locali; e tanto altro tal ché, alla fine della fiera, un si o un no al cittadino arriva sempre fuori tempo massimo.
Questa è l’origine del labirinto inestricabile di cui Ainis ha ricordato luci e ombre (Corsera, 17 aprile 2014) dove nessun manager potrebbe districarsi, e la politica ne è la massima responsabile. Incolpare i funzionari pubblici è grossolanamente falso, e sembra un alibi. Anche se attrae consenso, poiché l’elettorato non vede chi è dietro i fili della burocrazia, prelude ad ulteriori gravi errori.
Il pericolo, come in passato, è che in fasi critiche la politica si affermi con riforme spot, negozi la soppressione di istituzioni democratiche, dileggi lavoratori pubblici in ampia maggioranza onesti e sottopagati, alletti con nuove mode. Senza prefigurare vie d’uscita, da ricercare nella direzione della deregulation e, soprattutto, della programmazione delle azioni.
In somma, curare il male che affligge i cittadini non è delegittimare lo Stato, bensì fare scelte ragionevoli che ne promuovano un sano ed efficace operare.
Invece, demolire con la ruspa la struttura e i suoi funzionari, è buttare via il bambino con l’acqua sporca. I danni ricadranno oltre che sulle presenti anche alle future generazioni, in parti eguali.
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