Di Roberto Weber
Dalla morte di Wojtila all’abbandono di Ratzinger, la fiducia nella Chiesa e quella nel Papa sembravano aver imboccato un piano inclinato, al punto che il livello di legittimazione della Chiesa verso la fine del 2011, aveva toccato – se non ricordo male– il punto più basso, con un tasso di fiducia dichiarata prossimo ad un italiano su tre. Oggi – alla grande borsa dell’immateriale – il titolo ‘Chiesa’ ha riguadagnato una ventina di punti percentuali, mentre il Papa viaggia su soglie di gradimento altissime. E tutto, davvero tutto, è dovuto alla figura di Papa Francesco e all’indirizzo piuttosto netto – perlomeno nella percezione di noi laici – del suo magistero e della sua testimonianza. Possiamo davvero dire che la Chiesa è cambiata? Che il suo gran trafficare con le cose mondane è cessato? Che gli uomini – vescovi, cardinali, prelati vari – che di quel traffico erano i principali esponenti, sono stati rimossi e dimenticati? Penso che con maggiore o minore intensità la risposta sia no, eppure….eppure la presenza di Papa Francesco ha cambiato tutto, semplicemente perché ha fatto riaffiorare la ‘speranza’.
Tutto ciò per introdurre il tema dell’Italia, delle condizioni in cui versa, dei medici più o meno interessati che si affannano al suo capezzale, delle terapie tentate, degli effetti collaterali delle stesse, ma soprattutto dell’umore dell’illustre paziente e della sua effettiva volontà di vivere. La sensazione – peraltro confermata da tutti i sondaggi di opinione – è che al di là delle difficili condizioni strutturali del paese (debito pubblico, disuguaglianza crescente, forte disoccupazione, forme di illegalità` diffusa, coesione sociale minacciata, una frattura generazionale in termini di gestione degli equilibri di potere che non ha precedenti, etc etc), uno dei guai principali sia rappresentato dallo stato d’animo del paese, dal pessimismo che dalla sfera collettiva si e` trasferito a quella privata, dal vivere questo presente come assoluto, privo cioè di prospettive future. In una parola sembra mancare proprio ‘la speranza’. In queste condizioni il rischio vero è che riemerga il carattere proprio degli italiani, la tendenza ad attribuire le responsabilità sempre agli ‘altri’, la delegittimazione di qualsiasi istituto collettivo, la faziosità fine a se stessa, una forma di individualismo regressivo ed egoistico, la tendenza a mentire e a mentirsi, il vorace amore per il paese e il disprezzo per la nazione. Se ciò prende il sopravvento, i rischi diventano effettivamente molto, molto alti. E i segnali ci sono tutti: da una classe dirigente disorientata, quando non avida e miope, ad un corpo sociale che mette in luce smottamenti, rigurgiti corporativi, crescenti e diffusi egoismi. In questo processo di progressivo logoramento dei destini della nazione, finora la politica ha assunto nel migliore dei casi una funzione notarile, di gestione di basso profilo dell’esistente, nel peggiori dei casi un ruolo di accelerazione delle dinamiche economiche e sociali più perverse. La politica cioè si è rivelata perfettamente simmetrica al resto del paese, ne ha riflettuto i peggiori difetti e – dato il ruolo che istituzionalmente le è affidato – li ha amplificati. La cosiddetta protesta dei forconi all’interno della quale convergono strati sociali, frammenti di cittadinanza, cifre politiche estreme, uniti in una sola pulsione nichilistica suona oggi come ulteriore fortissimo campanello di allarme: questo pezzo di paese, al di là delle sue dimensioni e della sua estensione, appare infatti già largamente perduto alla democrazia rappresentativa. Il punto è evitare che la contaminazione si estenda. Per farlo va ritrovata la vena della ‘speranza’, una dimensione del tutto immateriale, ma essenziale per ripartire.
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