La crisi economica ha contribuito a ridefinire il ruolo della forza lavoro straniera, mutandone le forme della presenza all’interno dei sistemi occupazionali. Dalla complementarità con la forza lavoro italiana, passando per un effetto sostituzione in alcuni settori, oggi, nel caso di alcune specifiche mansioni, per i cittadini stranieri è possibile parlare di una sostanziale indispensabilità. Il welfare state familistico italiano necessita di manodopera straniera pena la sua implosione. Ciononostante la sfida che oggi si impone con tutta evidenza, dopo più di un lustro di sofferenza del mercato del lavoro, riguarda, da un lato, la sostenibilità dell’immigrazione sotto il profilo della gestione dei senza lavoro nel loro percorso di reinserimento lavorativo, vista la crescita esponenziale della disoccupazione; dall’altro, la necessità di garantire accettabili livelli occupazionali in determinati settori e dunque soddisfare strutturali fabbisogni di manodopera.
La mobilità professionale dei lavoratori stranieri sarà, inoltre, la questione centrale del mercato del lavoro del prossimo futuro. La presenza della forza lavoro straniera, come in uno specchio, pone in luce non solo i problemi sociali più o meno silenti della società di accoglienza, ma altresì riproduce le tendenze spontanee più esiziali del mercato del lavoro, sempre più bisognoso di una riserva di forza lavoro a basso costo. La penalizzazione, sia sotto il profilo retributivo che di sviluppo delle carriere e delle qualifiche professionali – soprattutto per gli stranieri di seconda generazione e di più lungo soggiorno sul territorio italiano – unitamente al mancato riconoscimento dei titoli di studio e ad una progressiva crescita del salario di riserva, non potrà non sfociare in tensioni che di certo diverranno il principale problema del mercato del lavoro degli stranieri. Diversamente dal quel che accade in molti economie sviluppate – volte al reperimento di forza lavoro ad alto livello di qualificazione – in Italia non si è mai manifestato un fabbisogno di personale immigrato dotato di elevate competenze tecniche e professionali, a conferma di quanto scarsa sia la necessità di manodopera qualificata per un sistema economico scarsamente orientato all’innovazione.
Se a livello generale il numero di occupati comunitari ed extracomunitari ha fatto registrare tra il 2012 e il 2013 un lieve incremento di poco inferiore alle 22 mila unità (+14.378 UE e +7.497 Extra UE) – a fronte di un crollo dell’occupazione nativa pari a -500 mila individui – il tasso di occupazione, anche se superiore a quello degli italiani, da ormai alcuni anni segnala una tendenza al peggioramento; dal 2008 ha infatti perso 5 punti percentuali, attestandosi all’attuale 58,1% (63% nel caso degli UE e 55,9% nel caso degli Extra UE).
Tuttavia, se si osservano gli andamenti su un periodo di tempo più ampio, si nota come la presenza dei cittadini migranti nel mercato del lavoro italiano è diventata sempre più rilevante. A partire dagli anni 2000, gli stranieri hanno assorbito buona parte della crescita dell’occupazione sino al 2007 e compensato la caduta dell’occupazione italiana nel corso della crisi economica degli anni recenti.
Dal 2007 (anno della massima crescita dell’occupazione) al 2013, a fronte di un calo superiore a 1,6 milioni di italiani, l’occupazione degli stranieri è aumentata di ben 853 mila unità. In questo periodo, di riflesso, l’incidenza degli stranieri nel mercato del lavoro italiano, comunque declinata, è aumentata. Essa ha assunto valori rilevanti sia a livello aggregato – toccando, nel 2013, quota 10,5% del totale degli occupati – che a livello settoriale, in particolare nelle Costruzioni (19,7%), nei Servizi (10,7%), in Agricoltura (13%). Va altresì sottolineata la ben nota rilevanza assunta dalla componente straniera in Attività di famiglie e convivenze come datori di lavoro per personale domestico (oltre l’80% del totale della forza lavoro occupata è immigrata), settore in cui si rileva una crescita dell’occupazione Extra UE pari a +43,8% su base annua.
L’occupazione di cui si parla è un’occupazione tendenzialmente schiacciata su qualifiche di basso livello: il Lavoro manuale non qualificato costituisce la forma principale di inquadramento professionale della forza lavoro straniera. Inoltre, a parità di livello di istruzione “alto” (in altre parole laurea e post lauream), la quota di lavoratori stranieri impiegati con mansioni di basso livello è pari al 22,6% del totale, a fronte dello 0,4% degli italiani.
Nel 2013 si registrano, inoltre, circa 500 mila cittadini stranieri in cerca di occupazione (147.376 UE e 345.564 Extra UE), quota che proprio nell’ultimo anno è aumentata di oltre 110 mila unità (+80.911 extracomunitari e +29.359 comunitari). Il relativo tasso di disoccupazione ha raggiunto quota 17,3% (15,8% per gli UE e 18% per gli Extra UE) sopravanzando quello degli italiani di circa 6 punti.
Parlare di cittadini migranti senza porre in luce le profonde differenze etniche, culturali, religiose che distinguono tra loro le diverse comunità di cui si compone l’immigrazione in Italia, può essere un errore da un punto di vista fenomenologico. L’inattività ed in particolare la ben nota questione dei NEET (Not in Employment, Education and Training).
Per l’anno 2013 è possibile stimare un numero totale di giovani tra i 15 e i 29 anni che è privo di occupazione e al di fuori dei sistemi formativi, pari a 2.434.740 unità, di questi 385.179 sono stranieri, il 15,8% della popolazione considerata.
E’ interessante notare che nel caso delle componenti UE ed Extra UE, la presenza femminile è maggioritaria, a differenza di quanto sia ravvisabile per i NEET italiani. Tra quest’ultimi, la quota di giovani donne è pari al 49,7% del totale, mentre nel caso dei giovani NEET comunitari ed extracomunitari l’incidenza percentuale è, rispettivamente, del 64,3% e 67,3%. La tendenza alla segmentazione di genere è molto più evidente nel caso di alcune specifiche comunità; ad esempio, nei casi delle cittadinanze quali Marocco, Bangladesh, India, Moldavia, Ucraina, Pakistan, Sri Lanka (Ceylon), le donne sono i due terzi dei NEET complessivamente stimati, superano cioè il 70% del totale.
Da quanto detto e vista la complessità dei fenomeni in gioco, individuare i punti di rottura all’interno degli assetti del mercato del lavoro e ipotizzare nuovi possibili riequilibri è impresa difficile. La netta segmentazione occupazionale tra italiani e stranieri – i cittadini comunitari ed extracomunitari sono caratterizzati da maggiore mobilità, salari di riserva più contenuti, maggiori chance di inserimento lavorativo e tuttavia maggiore esposizione ai processi di espulsione dal mercato del lavoro – è nota, così come è noto il fatto che la forza lavoro immigrata è solo in alcuni casi meno istruita di quella italiana e che in alcune comunità straniere sono presenti elevate quote di NEET e altissimi livelli di inattività femminile. Dunque, i lavoratori migranti sono una risorsa imprescindibile quando inseriti nel mercato del lavoro eppure, in caso perdita dell’occupazione, visto lo scarso attachment al sistema dei servizi per l’impiego e la forte dipendenza da reti sociali etnicamente omogenee, oneroso appare per loro il processo di un regolare reinserimento occupazionale.
Fonte: elaborazioni Staff SSRMdL di Italia Lavoro su microdati RCFL – ISTAT
No Comments